Porto Badisco. The cave of deers and extraterrestrials

#grottadeicervi #portobadisco #salento #extraterrestrial #pictograms #cave

Deers Cave in Porto Badisco

Porto Badisco, near Otranto, according to the myth, the first shore touched by Aeneas in his escape from Troy. Here is the Grotta dei Cervi, discovered only in 1970.

Inside speleologists found rock paintings of the first inhabitants of the area who lived there 6 millennia ago, according to archaeological ricostructions. Studies on wall lasted more than 10 years and stated these paintings as

the most important and qualitatively most impressive post-paleolithic wall painting art complex known in Europe […] enclosed in a single cave“.

The red and black paintings depict hunting scenes, deer and other signs of difficult interpretation. The place is not officially open to the public so as not to disturb the particular microclimate of the cave and thus preserve the paintings. Among the pictograms there is one that depicts a cruciform celestial body with a sort of cockpit in the center and elsewhere hominids with their weapons who destroy villages and kidnap the inhabitants.

What do these signs mean? What ancient memory do they tell? Is the closure of the cave linked to the desire to keep these paintings hidden? The speleologist Isidoro Mattioli who was among the group of discoverers returned to the cave other times to never return because, he says, during the explorations he heard the roar of rolling stones and the sound of drums.

The legend of the Shaman of Messapia

A new legend inflated by followers of extraterrestrial theories tells that 5 millenia ago, the same period of paintings, the Salento was a lush and mysterious land, rich in water and life, of immense forests with huge tall trees and a fertile undergrowth populated by wild boars, deer and magnificent moose. The planetary assembly of the gods met periodically near the sulfur springs, generated by the disintegration of the bodies of the Titans, massacred by Heracles with the help of Zeus. Every hundred years, a great multitude of picturesque deities discussed the problems and destinies of humanity. The result of each meeting of the planetary divinities was fixed on ideograms and pictograms impressed on the walls of the main caves along the coast.

During the first assembly of the fifth millennium BC they decided the fate of the weaver Aracne and the Shaman of Messapia (probably portrayed in this pictogram), who were confined into the Grotta dei Cervi. The Messapian Shaman was a beautiful and very intelligent man, who wanted to refute the methods and treatments of the god Asclepius.

He proposed to obtain healing from illness and even to guarantee the resurrection of death with the help of faithful snakes and the magical effect of the blood of the Medusa, the Gorgon, which he had exchanged for his own with the help of Athena.

Asclepius, in revenge, proposed to wall him alive in the Grotta dei Cervi . But Arachne, who loved the shaman, offered him a huge polygonal canvas as a gift, which would be used to shelter from the cold and humidity of the cave. When Asclepius learned of this, he reached the cave angry, horribly deforming the shaman’s features and fixing him like a pictogram on the cave walls; moreover, the furious divinity reduced the cloth lovingly woven by Arachne to a thousand pieces and deposited his apparently useless rags (zinzuli) in a cave to the south, which for this reason took the name of Grotta Zinzulusa.

If this seems to be only a legend, we suggest you to have a look on the many pictograms and paintings in many caves whose signs remember Ufo and spacecraft and peolple with an helmet. To be continued…


Last articles


or choose a category

Apulia Bari città d'arte Puglia cosa vedere in Puglia cosa vedere in Salento cosa vedere ostuni doc eng eros di altri tempi extravergine fischietti frisa frise frise al pomodoro friselle friselle al pomodoro grotta dei cervi Histories on Apulia la città bianca Lecce live Salento mare in salento mith and histories Salento miti miti e leggende Salento oil olio olive oil Orecchiette Ostuni otranto porto badisco Puglia salento sapori Storie sulla Puglia storie sul Salento terra d'otranto to eat in Puglia to see in salento to visit Salento Valle d'Itria visita Puglia visit Puglia vivere in salento


I lampioni di Ostuni

Guardare un lampione in ferro battutto è interessante, ma può stancare. Se però il lampione è appeso alla parete bianca di una casa stretta tra vicoli ed archi oltre i quali si scorgono una valle tempestata di olivi e un mare blu, lo spettacolo non annoia, ma invoglia a cercare altri scorci… Nel rione “Terra”, il borgo antico di Ostuni, gironzoli con il naso all’insù…
Non ci sono possenti manieri, viali alberati o cattedrali imponenti. Non ci sono marmi, nè colonne con artistici capitelli (a parte forse solo la bellissima chiesa barocca di San Vito Martire).
Nella Ostuni “vecchia” le dimensioni sono di dominio del piccolo, del lezioso e del semplice ed è l’umile calce che la fa da padrona, imbiancando in abbaglianti miraggi le case, le chiesette, gli archi, le piazzette in un intrico di viuzze che incanalano dolci brezze. E così che anche i lampioni assumono un’aura magica, inerpicati fra tutto quel biancore.
Brezze e odor di mare e di basilico si alternano fra le viuzze. Un basilico frequente nella “Terra” quasi quanto i lampioni. Un altro aroma s’aggiunge ai due: il vino miscelato da un barman d’eccezione: il vento. Ma il mare e il basilico non si possono bere. Solo fiutare.
Il vino no, quello si può. Si può sprigionare da un’osteria di un solo vano, illuminata anch’essa da un lampione solitario. Entri nella piccola osteria e ti siedi ad un tavolo ripensando ai giochi di colore che, fuori, il sole comincia a creare con la finestrella dalle persiane verdi.
All’ombra del lampione, all’interno, è come se si tornasse indietro nel tempo: messapi, longobardi, bizantini, normanni si sono avvicendati, demolendo, ricostruendo e saccheggiando queste antiche strade. Ma non ne scorgi i segni. Oggi, proprio questo lampione fa pensare che nessuno abbia intenzione di rovinare il patrimonio artistico e storico di Ostuni, bensì di valorizzarlo.
Ma il profumo del mare continua a stuzzicare le nari. E andiamo a vederlo…. Otto chilometri di spiaggia, acqua limpida, piccole case (anche quì…!), agavi e fichi d’india.
A sera, sulla via del ritorno, si ammira Ostuni sulla collina a 300 metri, illuminata dai lampioni come un presepe.
Mare blu diviene nero, quasi da non scorgerlo più, ma lo indovini per l’ansare quieto di cento lampade che dondolano all’orizzonte.
(liberamente tratto da “I lampioni di Ostuni” di Vittorio Stagnani)

Miti e leggende del Salento

Il passato del popolo salentino non si racconta solo attraverso i monumenti e i preziosi reperti storici ritrovati su tutto il territorio: c’è un’altra anima del Salento da scoprire, quell’ energia più irrazionale e fanciulla che cercava di dare una spiegazione a tutto quello che esiste e prende forma vitale.

“scazzamurrieddhi” o “municeddhu” o ancora “lauri” leccesi

Piccoli ritagli quotidiani, in cui si tramandavano leggende e superstizioni, magari durante il duro lavoro nei campi oppure nel chiacchiericcio di gruppo delle “comari” durante le faccende domestiche, oppure ancora veniva fuori la sera, nei quotidiani momenti di comunione seduti in gruppo intorno al fuoco.

Una magia che ancora si avverte nel clima del Salento e nei suoi rituali tenuti in vita dalla memoria popolare. Già il mito della taranta, simbolo per eccellenza e “marchio” ufficiale degli itinerari di viaggio nel Salento, rappresenta questa tendenza al magnifico e all’immaginario, per raccontare in modo poetico e soavemente infantile sentimenti, emozioni e storie di vissuto quotidiano con toni leggendari ed epici. Come le leggendarie figure degli “scazzamurrieddhi” o “municeddhu” o ancora “lauri” leccesi, che arrecavano dispetti di ogni tipo, come nascondere o cambiare di posto oggetti e sedendosi sul petto dei dormienti suscitando incubi notturni.

Rubargli il cappello a punta, era l’unico modo di togliere potere al la loro indole irriverente.

 

Tra folletti, gnomi, spiritelli e “macare”, sono numerosissime le leggende locali che riguardano le masserie, le pinete, le chiese, i monumenti, oggi frequentatissimi nei periodi di vacanza nel Salento, come anche nelle suggestive zone costiere ricche di grotte e insenature naturali. Torre dell’Orso, una delle tante località balneari del Salento preferite da turisti, conosce la storia delle “due sorelle”, due scogli molto somiglianti, che si ritiene siano due sorelle mutate in quella forma dagli dei per pietà, mentre stavano annegando in mare.

Torre dell’orso – le due sorelle

Assai suggestiva è la leggenda legata a Santa Maria di Leuca e al suo mare, oggetto di altri racconti affascinanti del passato: questa meta ambita conserva la leggenda degli “scogli dannati”, un insieme di isolotti a largo di Punta Ristola, considerati “maledetti” dai naviganti in viaggio vicino alla costa perché poco visibili. Secondo la mitologia greca in questo punto Medea, per vendicarsi del marito Giasone, uccise i figli e sparse i loro corpi nelle acque, metaforicamente rappresentate dagli scogli.

 

In molte zone del litorale, oggi aperte al mondo e piene di vita durante le vacanze nel Salento, ci sono leggende di questo tipo. Sono incalcolabili per numero e per varietà, anche i miti legati al culto religioso, alla commemorazione delle stagioni, come anche le superstizioni e le leggende più “domestiche”, come quelle che venivano dette ai bambini per evitare che questi combinassero guai o di mettersi in situazione di pericolo, come il terribile “nanni-orcu”, creatura malvagia che mangiava i piccoli disobbedienti.

Madea e gli argonauti

La neve conservata – come nasce il gelato

Pare che il gelato sia stato inventato nel Medioevo dal solito italiano furbo che un giorno versò dello sciroppo su una palla di neve e fece la grande scoperta oggi trasformata in vera e propria industria. E’ però certo che il creatore del vero gelato fu il fiorentino Bernardo Buontalenti e che nel XVI secolo in Toscana si produceva su scala commerciale. La neve, invece, è stata inventata da sempre, ma col poco tempismo di cadere d’inverno, quando i gelati piacciono meno. E siccome nel Medioevo l’uomo era furbo sì, ma non tanto da pensare al frigorifero, i gelati si consumarono per lungo tempo soltanto nella stagione fredda.
Agli uomini non è dato aver tutto, ed è proprio per questa ragione che aguzzano l’ingegno, specialmente quando ci sono di mezzo la gola e il portafoglio.
Debbono essere nate così ad Altamura, in provincia di Bari le neviere, grandi cisterne interrrate dove d’inverno si accumulavano, con l’intervento d’una moltitudine di lavoranti specializzati, scorte di neve che si conservava fino all’estate ed era esportata nei sitibondi e solatii paesi della costa, pronta per farne gelati, granite e sorbetti.
Le prime notizie sulle neviere appaiono in documenti del 1857, raccolti e conservati dall’archivio-biblioteca del museo civico di Altamura. “Una vera e propria industria del freddo era in atto a quei tempi, scrive lo studioso Francesco Lemma, in Altamura e fuori, che interessava gran parte della nostra popolazione e assorbiva capitali ed energie che, rapportate ai tempi e all’apparente precarietà della merce che ne formava oggetto, avevano dimensioni e caratteristiche da stupire”.
Oggi nelle campagne attorno ad Altamura ci sono amcora molte neviere; si riconoscono dal caratteristico tetto spiovente, in pietra, a pelo di campagna. Nonostate rapidamente soppiantate dai grandi impianti frigoriferi, ma è bello ugualmente vederle e immaginare ciò che avveniva attorno ad esse all’indomani di un’abbondante caduta di neve.
Operai armati di pale, “sarte”, di “vaiardi”, di “mazzache”, di “trocciole”, scale, catene, maglie e zapponi si riversavano attorno alla neviera per stipare la neve, facendo bene attenzione che rimanesse pura da sassi ed erbe il più possibile, perchè non si avessero qualità di scarto. La neve doveva essere “bianca, ricettibile, mangiabile, da bicchiere”. Le qualità più comunemente richieste erano la “ricettibile” e da “bicchiere”, la neve buona insomma per i gelati fatti, oltre che con gli sciroppi, anche col vin cotto. Ma quest’ultima era l’invenzione per i più poveri.
La neve, stipata con paticolari cure, resisteva bene per tutta la primavera e l’estate, quando veniva ilmomento di esportarla sulla costa dove altri commercianti vevano acquistato a “scatola chiusa” grandi quantità della bianca merce. Enormi problemi erano legati al trasporto… Quante lamentele giungevano agli “industriali” di Altamura per gli “sfridi” (sgocciolio che riduceva il volume) e la non eccellente qualità! Scrivva un comerciante al suo fornitore: “un altro poco di neve, o volete onon volete dovete darmela”.
La neve si tagliava in blocchi e la si caricava sui carri. Prima però era necessario l’imballaggio, altropunto dolente, perchè dovevano viaggiare lentamente sotto il solleone per mote ore. Soltanto ua copertura fsatta a regola d’arte consentiva che essa arrivasse a destinazione con lo sfrido neilimti previsti e calcolati al centesimo dalleparti contraenti.
Il miglior imballaggio er a la paglia, che tanto più rispondeva al suo compito coinbente quanto più era sottile e abbondante. Non era sempre facile trovare paglia; così quando mancava a causa soprattuto degli incendi del solleone, si ricorreva a paglia grossa e magari “abbrucciacchiata”, che provocava però lamentele a non finire e anche cause giudiziarie lunghissime.
Il prodotto era controllato dai sindaci prima di essere venduto e spesso essi ne proibivano il commercio perchè la neve non era troppo pulita o perchè sapeva di fumo. Un commerciante di Monopoli scriveva adirato: “Mi raccomando, nel far condizionare la neve, di non farmi mettere la paglia bruciata, perchè l’altrieri ebbe una multa”.
Gioia per grandi e piccini attorno ai carri da Altamura che arrivavano a Bari, Bitritto, Bitonto, Conversano, Gallipoli, Gioia del Colle, Gravina, Lecce, Matera, Minervino, Monopoli, Santeramo, Soverato, Trani e fino a Taranto perchè si poteva fare il gelato e rinfrescare l’acqua e “fare feste più divertenti”, per la presenza del singolare sorbetto che oggi senza nessuna fatica troviamo al bar dell’angolo.
Eppure dopo la grande invenzione del frigorifero e con la scia spesso miseramente modaiola dell’ambientalismo, l’ultima frontiera è il frigorifero senza corrente, sotterraneo che sfrutta le stesse caratteristiche della neviera: sfruttando l’isolamento termico del sottosuolo conserva naturalmente a bassa temperatura i cibi… Quando si dice che la tradizione insegna…

Il culto di Demetra

Il nostro primo racconto ci porta direttamente nel cuore della tradizione pugliese, origini lontane e quasi dimenticate. Cosa ci fa il culto pagano della dea Demetra nella nostra tradizione? Bhe, a dir il vero davvero tanto! Ma chi era Demetra?
Demetra, figlia di Cronos e di Rhea Cibele, che i romani identificarono con la loro Cerere, era la dea dell’agricoltura, una delle divinità maggiori e più venerate. Demetra, era la dea dei campi e delle messi, in greco appunto significava “la madre Terra“, come tutti i contadini aveva un carattere semplice, di morale ineccepibile, di costumi austeri; veniva venerata come madre benigna e affettuosa. Proteggeva tutti i prodotti agricoli, ma in particolar modo quelli ritenuti più importanti, le biade e i cereali. Il suo culto era molto diffuso in Tessaglia, nella Beozia, nell’Attica, a Corinto e in tutto il Peloponneso fino ad arrivare in Sicilia, che per la sua fertilità divenne la dimora preferita dalla dea. Aveva una figlia avuta da Zeus, Persefone, per i romani Proserpina.

Ritratto di Persefone – Autore: Agostino Arrivabene

Famoso è il mito del ratto di Persefone. Demetra veniva raffigurata come una matrona severa e maestosa, ma anche bella ed affabile, con una corona di spighe in testa, una fiaccola in una mano e nell’altra un cesto di frutta. Le venivano sacrificati buoi, mucche e maiali, e le si offrivano frutta e miele. Le erano sacri i papaveri, gli alberi da frutta e le spighe. La storia prende proprio piede dal papavero, infatti in diverse aree del Salento, del tarantino e della Puglia, sono rimaste molto vive, sino quasi ai giorni nostri, le tradizioni dell’uso medicamentoso della “papagna” e del rito riparatorio alla “fascinazione” nel mondo contadino. Quanto sono legate queste usanze al mito demetriaco ? La dea greca Demetra, e il suo corrispettivo romano, Cerere, sono legate al simbolismo delle spighe e delle capsule di papavero da oppio, sia nella mitologia che in molte raffigurazioni. Persino una divinità precedente (e correlata anch’essa alla successiva Demetra) scoperta a Gazi, è strettamente legata al papavero: il famoso “idolo” femminile di Gazi è rappresentato con in testa delle capsule di papavero. Cerere e Demetra sono spesso “accompagnate”nelle varie raffigurazioni da spighe, oppio e serpenti.

La pianta del Papaver somniferum è conosciuta nella nostra tradizione popolare come “papagna” della quale ci è pervenuto un utilizzo di tipo medicamentoso nella cultura popolare contadina (calmante e analgesico per adulti e bambini a dosaggi variabili).

Papavero da oppio

Per calmare e far addormentare i bambini irrequieti sino a qualche decennio fa veniva preparato un infuso dal risultato “sicuro” e immediato, fatto con camomilla e uno o due bulbi di Papaver somniferum. Una variante molto utilizzata era il “pupieddu” (o “pupiddu” a seconda del dialetto di provenienza), un succhietto artigianale che prendeva forma di capezzolo attraverso la chiusura in una pezzuola, o un angolo di fazzoletto, dei seguenti ingredienti: mollica di pane, fiori di camomilla, foglie di alloro tritate, semi di papavero da oppio e zucchero (o miele).
L’infuso di “papagna” era utilizzato, ovviamente, anche per curare individui adulti (tosse, insonnia, irrequietezza, ecc.): in questo caso i dosaggi erano maggiori e rapportati alla sintomatologia o ai risultati desiderati….
Insomma vorrà dire forse che le nostre tradizioni siano fortemente accumonate da riti e usanze pagane di un passato remoto? La nostra terra è colma di testimonianze, scoprirle insieme sarà il nostro obiettivo…

Demetra raffigurata con spighe ed oppio

La frisa salentina

I turisti la guardano e non sanno quale posata utilizzare per mangiarla e provano a sgranocchiarla come un biscotto; i settentrionali si interrogano da quale lato iniziare a morderla; i meridionali osservano divertiti mentre hanno addentato già l’ultimo pezzo.

La “Frisa”

La leggenda vuole che le prime frise fossero state importate direttamente da Enea quando sbarcò in Puglia. Certo è che sono un alimento tradizionale consumato da secoli nella regione.
Nacque come piatto povero, fatto solo di farina d’orzo (allora meno pregiata di quella di frumento) e consumato dai contadini e dai marinai. Si dice fosse uno dei piatti che i contadini preparavano per i Cavalieri templari che partivano per le crociate in terra Santa.

Le frise dovevano mantenersi a lungo e resistere a lunghi viaggi, per questo subivano una doppia cottura e poi venivano impilate facendo passare un filo nel buco come a formare una collana.
In passato le friselle venivano ammollate con acqua di mare (già salata) e mangiate con un pomodoro spremuto sopra. Oggi oltre al pomodoro vengono aggiunti anche altri ingredienti tipici del Sud Italia: olive leccine, carciofini, peperoni, rucola, filetti di tonno o di acciughe e così via.

Le friseddhe potevano essere preparate e conservate per mesi nelle capàse, i tradizionali orci panciuti in terra cotta dal collo largo e le piccole e robuste anse.

La tipica frisa salentina

L’impasto, costituito da farina, acqua e sale è del tutto simile a quello del pane ma con un 10 % in meno di acqua. Una volta cotte, vengono estratte dal forno e spaccate in due secondo l’asse mediano, orizzontale, che deve garantire un’accentuata rugosità nella parte tagliata. Secondo la tradizione, veniva utilizzato uno spago, cingendo le friselle e tirandone i capi, oppure utilizzando una sorta d’archetto rudimentale, attrezzato di un filo di ferro rugoso.

Il consumo delle friselle è soprattutto estivo, quando vanno a costituire un piatto fresco e facilmente digeribile. L’uso canonico, consiste nel bagnarle, incoronarle con i pomodorini freschi locali cospargerle di origano (Origanum eracleonticum), di sale e infine nell’allagarle o quasi d’olio di frantoio.

Sembrerà strano, ma la riuscita non è sempre garantita. Facile infatti dire bagnare e condire, ma come si bagna una friseddha doc? Alcuni la profanano direttamente sotto il rubinetto, altri la pongono in una ciotola e la sommergono di acqua, altri, la bagnano a rate con piccole, timide mestolate d’acqua. Il risultato è sempre diverso!

pomodori, rucola, mozzarelle, frisa, olive

Vi suggeriamo ora un preciso protocollo per eseguire questa operazione a regola d’arte: per prima cosa bisogna porre in tavola una ciotola con acqua preferibilmente fresca, poi, dopo essersi muniti di fondine, bisogna afferrare le friseddhre con tre dita, con la parte rugosa sopra e calarle e cacciarle velocemente per tre volte dall’acqua della ciotole, quindi porle nella fondina sul cui fondo, badate bene si è proceduto a versare un mestolino della stessa acqua e solo allora si può procedere al condimento.

Provare per credere!

Accetta e Prosegui...
Questo sito utilizza cookie che ci aiutano a fornire i nostri servizi. Facendo click sul link di accettazione acconsenti ad utilizzare i cookie e potrai continuare a navigare nel sito. LEGGI INFORMATIVA