La nascita delle Orecchiette

Orecchiette

La nascita delle orecchiette è avvolta nel mistero. Il poeta latino Varrone parla delle lixulae, un tipo di pasta a forma rotonda con il centro concavo ottenuta con farina, acqua.

MEDIOEVO

Nel Medioevo, nella zona provenzale, si produceva una pasta simile alle orecchiette, le crosets. Con il grano duro si lavorava una pasta piuttosto spessa, che veniva tagliata in dischi dal diametro irregolare, incavati con la pressione del pollice al centro.

Alcune fonti attribuiscono alla Napoli duecentesca dei d’Angiò Conti di Provenza, il merito di diffondere la pasta provenzale con il nome di orecchietta. Essi avevano tra i loro domini anche le terre di Puglia.

DURANTE IL RINASCIMENTO

Si hanno notizie di questa pasta anche intorno alla seconda metà del 1500 da Giambattista del Tufo, scrittore napoletano le cui opere sono ricchissime di notizie storiche sugli usi e costumi dell’Italia meridionale. Per la prima volta le orecchiette venivano descritte come prodotto tipico di Bari.
Il nome da quel momento diventa “strascinate e maccheroni incavati di Bari”. Secondo la tradizione locale, la forma delle orecchiette sembra s’ispiri a quella dei tetti dei trulli.

Attorno alla fine del ’500, negli archivi della chiesa di San Nicola a Bari fu ritrovato un documento con il quale un padre donava il panificio alla figlia. Nell’atto notarile si poteva anche leggere che la cosa più importante lasciata in dote matrimoniale era l’abilità della figlia di preparare le recchietedde.

LA FARINA

La semola è l’ingrediente principale delle orecchiette. È una farina di grano duro, più granulosa e ricca di glutine. Talvolta viene utilizzata la semola integrale, più grezza. Per preparare le orecchiette, la semola va impastata con acqua tiepida, in un rapporto di circa 1/3 rispetto al peso della farina. Alcune versioni della ricetta prevedono anche l’aggiunta di un uovo che rende l’impasto più “calloso”.

La ricetta vuole così:

Prendi la semola, fai il camino, mettici al centro l’acqua opportunamente salata e impasta fino a quando la semola non assorbe tutta l’acqua. Qualcuno ci mette pure una o due uova per rendere le orecchiette più callose.

Dopo aver impastato, riunire la massa tutta insieme e, quando diventa liscia come il velluto, metterla da parte coperta da un piatto per non farla asciugare. Tagliarne un pezzo, impastarlo per bene e stenderlo con le mani finché non diventi un bastoncino lungo e sottile; più sottile è, e più piccole verrano le orecchiette.

Dopodiché prendere il coltello e cominciare l’opera. E qui sta il segreto perché è una questione di dita, di come si muovono fra impasto, coltello e piano. Col coltello raschiare avanti e dietro il piano per renderlo rasposo così da far venire la pasta rugosa e non liscia.

Prendere lo “sferre” con le due mani appoggiando sopra l’indice e il medio e sotto il pollice: tagliare un pezzo di mazza e tirare, facendo con i due indici un mezzo cerchio sopra il tocchetto così che l’orecchietta si rovesci direttamente sotto il coltello e non vada girata sul dito, come fanno quelle che non sono di Bari.

Man mano che si fanno, mettere le orecchiette ad asciugare al sole.

L’usanza vuole che le orecchiette per il ragù siano più piccole e preferibilmente secche, mentre quelle da fare con le cime di cavolo devono essere più grosse e fresche.

Lo “sferre” è un coltello senza manico e non zigrinato, utilizzato per trascinare i pezzettini d’impasto sul tavolo. “U’ tavelidd/tavelier” è invece un piano di legno su cui si lavora la pasta fresca. Più è usato e meglio funziona: infatti viene addirittura raschiato per conferire la tipica rugosità alle orecchiette.

Orecchiette e Predizione

Le orecchiette hanno persino proprietà divinatorie. Per prevedere il sesso del nascituro, la futura madre era solita mettere nell’acqua bollente una recchietedde ed un pezzo di maccherone grosso detto zito. Al forte bollore, questi andavano su e giù nella pentola: se la donna vedeva salire a galla prima la recchietedde pronosticava che sarebbe nata una femmina. Se invece vedeva salire prima lo zito, sarebbe nato un maschio.


Fonti:
Signorile Vito, Ce se mange iòsce? Madonne ce ccròsce! Le tradizioni
gastronomiche raccontate da un buongustaio
, Gelso Rosso, Bari, 2008.
Sbisà Nicola, Puglia in Tavola, Le ricette della tradizione, Adda, Bari, 2009.

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Porto Badisco. The cave of deers and extraterrestrials

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Deers Cave in Porto Badisco

Porto Badisco, near Otranto, according to the myth, the first shore touched by Aeneas in his escape from Troy. Here is the Grotta dei Cervi, discovered only in 1970.

Inside speleologists found rock paintings of the first inhabitants of the area who lived there 6 millennia ago, according to archaeological ricostructions. Studies on wall lasted more than 10 years and stated these paintings as

the most important and qualitatively most impressive post-paleolithic wall painting art complex known in Europe […] enclosed in a single cave“.

The red and black paintings depict hunting scenes, deer and other signs of difficult interpretation. The place is not officially open to the public so as not to disturb the particular microclimate of the cave and thus preserve the paintings. Among the pictograms there is one that depicts a cruciform celestial body with a sort of cockpit in the center and elsewhere hominids with their weapons who destroy villages and kidnap the inhabitants.

What do these signs mean? What ancient memory do they tell? Is the closure of the cave linked to the desire to keep these paintings hidden? The speleologist Isidoro Mattioli who was among the group of discoverers returned to the cave other times to never return because, he says, during the explorations he heard the roar of rolling stones and the sound of drums.

The legend of the Shaman of Messapia

A new legend inflated by followers of extraterrestrial theories tells that 5 millenia ago, the same period of paintings, the Salento was a lush and mysterious land, rich in water and life, of immense forests with huge tall trees and a fertile undergrowth populated by wild boars, deer and magnificent moose. The planetary assembly of the gods met periodically near the sulfur springs, generated by the disintegration of the bodies of the Titans, massacred by Heracles with the help of Zeus. Every hundred years, a great multitude of picturesque deities discussed the problems and destinies of humanity. The result of each meeting of the planetary divinities was fixed on ideograms and pictograms impressed on the walls of the main caves along the coast.

During the first assembly of the fifth millennium BC they decided the fate of the weaver Aracne and the Shaman of Messapia (probably portrayed in this pictogram), who were confined into the Grotta dei Cervi. The Messapian Shaman was a beautiful and very intelligent man, who wanted to refute the methods and treatments of the god Asclepius.

He proposed to obtain healing from illness and even to guarantee the resurrection of death with the help of faithful snakes and the magical effect of the blood of the Medusa, the Gorgon, which he had exchanged for his own with the help of Athena.

Asclepius, in revenge, proposed to wall him alive in the Grotta dei Cervi . But Arachne, who loved the shaman, offered him a huge polygonal canvas as a gift, which would be used to shelter from the cold and humidity of the cave. When Asclepius learned of this, he reached the cave angry, horribly deforming the shaman’s features and fixing him like a pictogram on the cave walls; moreover, the furious divinity reduced the cloth lovingly woven by Arachne to a thousand pieces and deposited his apparently useless rags (zinzuli) in a cave to the south, which for this reason took the name of Grotta Zinzulusa.

If this seems to be only a legend, we suggest you to have a look on the many pictograms and paintings in many caves whose signs remember Ufo and spacecraft and peolple with an helmet. To be continued…


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Miti e leggende del Salento

Il passato del popolo salentino non si racconta solo attraverso i monumenti e i preziosi reperti storici ritrovati su tutto il territorio: c’è un’altra anima del Salento da scoprire, quell’ energia più irrazionale e fanciulla che cercava di dare una spiegazione a tutto quello che esiste e prende forma vitale.

“scazzamurrieddhi” o “municeddhu” o ancora “lauri” leccesi

Piccoli ritagli quotidiani, in cui si tramandavano leggende e superstizioni, magari durante il duro lavoro nei campi oppure nel chiacchiericcio di gruppo delle “comari” durante le faccende domestiche, oppure ancora veniva fuori la sera, nei quotidiani momenti di comunione seduti in gruppo intorno al fuoco.

Una magia che ancora si avverte nel clima del Salento e nei suoi rituali tenuti in vita dalla memoria popolare. Già il mito della taranta, simbolo per eccellenza e “marchio” ufficiale degli itinerari di viaggio nel Salento, rappresenta questa tendenza al magnifico e all’immaginario, per raccontare in modo poetico e soavemente infantile sentimenti, emozioni e storie di vissuto quotidiano con toni leggendari ed epici. Come le leggendarie figure degli “scazzamurrieddhi” o “municeddhu” o ancora “lauri” leccesi, che arrecavano dispetti di ogni tipo, come nascondere o cambiare di posto oggetti e sedendosi sul petto dei dormienti suscitando incubi notturni.

Rubargli il cappello a punta, era l’unico modo di togliere potere al la loro indole irriverente.

 

Tra folletti, gnomi, spiritelli e “macare”, sono numerosissime le leggende locali che riguardano le masserie, le pinete, le chiese, i monumenti, oggi frequentatissimi nei periodi di vacanza nel Salento, come anche nelle suggestive zone costiere ricche di grotte e insenature naturali. Torre dell’Orso, una delle tante località balneari del Salento preferite da turisti, conosce la storia delle “due sorelle”, due scogli molto somiglianti, che si ritiene siano due sorelle mutate in quella forma dagli dei per pietà, mentre stavano annegando in mare.

Torre dell’orso – le due sorelle

Assai suggestiva è la leggenda legata a Santa Maria di Leuca e al suo mare, oggetto di altri racconti affascinanti del passato: questa meta ambita conserva la leggenda degli “scogli dannati”, un insieme di isolotti a largo di Punta Ristola, considerati “maledetti” dai naviganti in viaggio vicino alla costa perché poco visibili. Secondo la mitologia greca in questo punto Medea, per vendicarsi del marito Giasone, uccise i figli e sparse i loro corpi nelle acque, metaforicamente rappresentate dagli scogli.

 

In molte zone del litorale, oggi aperte al mondo e piene di vita durante le vacanze nel Salento, ci sono leggende di questo tipo. Sono incalcolabili per numero e per varietà, anche i miti legati al culto religioso, alla commemorazione delle stagioni, come anche le superstizioni e le leggende più “domestiche”, come quelle che venivano dette ai bambini per evitare che questi combinassero guai o di mettersi in situazione di pericolo, come il terribile “nanni-orcu”, creatura malvagia che mangiava i piccoli disobbedienti.

Madea e gli argonauti

La neve conservata – come nasce il gelato

Pare che il gelato sia stato inventato nel Medioevo dal solito italiano furbo che un giorno versò dello sciroppo su una palla di neve e fece la grande scoperta oggi trasformata in vera e propria industria. E’ però certo che il creatore del vero gelato fu il fiorentino Bernardo Buontalenti e che nel XVI secolo in Toscana si produceva su scala commerciale. La neve, invece, è stata inventata da sempre, ma col poco tempismo di cadere d’inverno, quando i gelati piacciono meno. E siccome nel Medioevo l’uomo era furbo sì, ma non tanto da pensare al frigorifero, i gelati si consumarono per lungo tempo soltanto nella stagione fredda.
Agli uomini non è dato aver tutto, ed è proprio per questa ragione che aguzzano l’ingegno, specialmente quando ci sono di mezzo la gola e il portafoglio.
Debbono essere nate così ad Altamura, in provincia di Bari le neviere, grandi cisterne interrrate dove d’inverno si accumulavano, con l’intervento d’una moltitudine di lavoranti specializzati, scorte di neve che si conservava fino all’estate ed era esportata nei sitibondi e solatii paesi della costa, pronta per farne gelati, granite e sorbetti.
Le prime notizie sulle neviere appaiono in documenti del 1857, raccolti e conservati dall’archivio-biblioteca del museo civico di Altamura. “Una vera e propria industria del freddo era in atto a quei tempi, scrive lo studioso Francesco Lemma, in Altamura e fuori, che interessava gran parte della nostra popolazione e assorbiva capitali ed energie che, rapportate ai tempi e all’apparente precarietà della merce che ne formava oggetto, avevano dimensioni e caratteristiche da stupire”.
Oggi nelle campagne attorno ad Altamura ci sono amcora molte neviere; si riconoscono dal caratteristico tetto spiovente, in pietra, a pelo di campagna. Nonostate rapidamente soppiantate dai grandi impianti frigoriferi, ma è bello ugualmente vederle e immaginare ciò che avveniva attorno ad esse all’indomani di un’abbondante caduta di neve.
Operai armati di pale, “sarte”, di “vaiardi”, di “mazzache”, di “trocciole”, scale, catene, maglie e zapponi si riversavano attorno alla neviera per stipare la neve, facendo bene attenzione che rimanesse pura da sassi ed erbe il più possibile, perchè non si avessero qualità di scarto. La neve doveva essere “bianca, ricettibile, mangiabile, da bicchiere”. Le qualità più comunemente richieste erano la “ricettibile” e da “bicchiere”, la neve buona insomma per i gelati fatti, oltre che con gli sciroppi, anche col vin cotto. Ma quest’ultima era l’invenzione per i più poveri.
La neve, stipata con paticolari cure, resisteva bene per tutta la primavera e l’estate, quando veniva ilmomento di esportarla sulla costa dove altri commercianti vevano acquistato a “scatola chiusa” grandi quantità della bianca merce. Enormi problemi erano legati al trasporto… Quante lamentele giungevano agli “industriali” di Altamura per gli “sfridi” (sgocciolio che riduceva il volume) e la non eccellente qualità! Scrivva un comerciante al suo fornitore: “un altro poco di neve, o volete onon volete dovete darmela”.
La neve si tagliava in blocchi e la si caricava sui carri. Prima però era necessario l’imballaggio, altropunto dolente, perchè dovevano viaggiare lentamente sotto il solleone per mote ore. Soltanto ua copertura fsatta a regola d’arte consentiva che essa arrivasse a destinazione con lo sfrido neilimti previsti e calcolati al centesimo dalleparti contraenti.
Il miglior imballaggio er a la paglia, che tanto più rispondeva al suo compito coinbente quanto più era sottile e abbondante. Non era sempre facile trovare paglia; così quando mancava a causa soprattuto degli incendi del solleone, si ricorreva a paglia grossa e magari “abbrucciacchiata”, che provocava però lamentele a non finire e anche cause giudiziarie lunghissime.
Il prodotto era controllato dai sindaci prima di essere venduto e spesso essi ne proibivano il commercio perchè la neve non era troppo pulita o perchè sapeva di fumo. Un commerciante di Monopoli scriveva adirato: “Mi raccomando, nel far condizionare la neve, di non farmi mettere la paglia bruciata, perchè l’altrieri ebbe una multa”.
Gioia per grandi e piccini attorno ai carri da Altamura che arrivavano a Bari, Bitritto, Bitonto, Conversano, Gallipoli, Gioia del Colle, Gravina, Lecce, Matera, Minervino, Monopoli, Santeramo, Soverato, Trani e fino a Taranto perchè si poteva fare il gelato e rinfrescare l’acqua e “fare feste più divertenti”, per la presenza del singolare sorbetto che oggi senza nessuna fatica troviamo al bar dell’angolo.
Eppure dopo la grande invenzione del frigorifero e con la scia spesso miseramente modaiola dell’ambientalismo, l’ultima frontiera è il frigorifero senza corrente, sotterraneo che sfrutta le stesse caratteristiche della neviera: sfruttando l’isolamento termico del sottosuolo conserva naturalmente a bassa temperatura i cibi… Quando si dice che la tradizione insegna…

Fuori strada…

Percorrere occulti sentieri come pastori sanno, tra rocce e colline e ciuffi d’erba, la strada dell’ovile; perdersi tra pietre grige, treppicare fra boschetti e piante cariche di essenze selvagge che effondono nell’aria aromi da stordire. E poi guardare lontano…
E’ la Murgia.
Ci vogliono gli scarponi per girovagare sulla Murgia e assaporarla. Per il castello gli scarponi non servono: intorno ci sono strade asfaltate, ma se soltanto vi lasciate condurre dal richiamo d’andar per quel deserto di pietra allora attrezzatevi ed abbandonate il comodo ristorante, dimenticate il juke box. C’è la musica del vento.
Le pietre della Murgia m’attirano come camminare per certi campi innevati dove nessuno ha messo ancora piede ma, contemporaneamente, quasi mi dispiace calpestare quella panna montata. Mi sembra di dissacrare il suo modo arcano di tortuose gravine, orride voragini, tane di lupi, “puli”, pastori imbaccucati che ora sentono la radio per passare il tempo ed anno, invece, perso l’abitudine di intagliare i rami.
L’ultima volta sulla Murgia ci sono stato in autunno e credo prorpio che sia la stagione sua. Ma mi piace anche d’inverno e d’estate quando sembra un quadro di Van Gogh inondata di giallo. Com’è in primavera? Un tripudio di vita, uno sbocciare di pallidi asfodeli, di peonie coralline, di orchidee, un verdeggiare di timo, lentisco, rosmarino, di macchie di lingustri, di frassini.
Quel giorno d’autunno l’aria era pregna d’umidità: aveva piovuto la notte e all’alba. Poi era venuto il sole ed il cielo era come una grande bandiera azzurra. Pozzanghere s’erano formate nei tratturi e tra le pietre; dentro ci si specchiavano le erbe e il volo rapido e nervoso di falchetti. I campi erano fangosi, le pietre, macchiate di muschi e di licheni, lucevano al sole. In alcuni vigneti a ridosso di case coloniche abbandonate e regno di lucertole e “scorzoni”, pochi grappoli erano rimasti fra foglie stanche. Contesi chicci a passeri e cardellini voraci: avevano un sapore di mosto e di uvetta. C’erano dei perazzi dai frutti asprigni e fichi selvatici piccoli, piccoli ma dolci e generosi.

In autunno crescono i cardoncelli sulla Murgia. Mi piace credere che solo in Puglia crescano questi deliziosi funghi. Anzi, credo proprio che sia così. Sono carnosi, corposi, hanno la cappella marrone e un bel gambo avorio. Si riconoscono quasi subito quando non sono mimetizzati tanto bene da sembrar sassi; sono tanto saporiti perchè assorbono tutte le essenze selvagge della Murgia. Ne raccolsi tanti quel giorno. Me ne riempii le tasche e quando nemmeno queste bastarono usai la canottiera. C’era tanto vento ma, pur a dorso nudo, non tremavo: c’era un tiepido sole d’autunno.

Ma non fu una giornata del tutto lieta, quella. Tre colpi di fucile stroncarono la vita di una graziosa volpe rossa. Ferita al primo colpo cercò disperatamente salvezza fra i sassi; il secondo la ferì ancora e il terzo la fulminò. La volpe guardava orizzonti, schifava il cacciatore e già andava per cacce notturne sulle nevi che resto avrebbero ammantato Murex.
Vittorio Stagnani

Le origini del tarantismo

Che le origini del Tarantismo siano da attribuire a Taranto e dintorni lo attestano molti scritti antichi, in particolare quelli dei viaggiatori stranieri che soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento, nell’ambito dei loro “tours” nel Meridione d’Italia giungevano nella nostra città, e che avevano la preziosa abitudine di lasciare appunti, annotazioni, lettere a testimonianza delle loro osservazioni e delle loro ricerche. La più antica testimonianza risalente attorno alla seconda metà del Cinquecento, è quella di Nicolas Audebert, francese, poeta e consigliere al parlamento di Bretagna, ricco borghese d’Orleans. “La Tarantola è più comune in Puglia che in nessun altra località e principalmente dalle parti della città di Taranto, donde ha preso il nome, perché durante tutta l’estate nei campi ce ne sono un’infinità.” La trattazione di Audebert riguarda anche gli effetti della puntura dell’insetto che sono tra loro molto diversi per due cause: – la diversa qualità del veleno dell’insetto; – la diversa temperatura e il diverso umore delle persone punte.
La descrizione ci parla del fatto che la puntura può provocare il canto o le grida incessanti;

il pianto, il riso, il sonno o l’insonnia. Alcuni hanno mal di testa e vomitano, altri fuggono, altri ancora tremano. Alcuni sono appesantiti e abbattuti, altri vogliono soltanto saltare e danzare. C’è poi chi è in preda a passioni diverse come frenesia, rabbia, furia. Chi grida di dolore, chi invece rimane placido, quasi insensibile.

Sta di fatto, afferma Audebert, che le persone malinconiche sono le più tormentate delle altre e cambiano d’ora in ora gli effetti delle loro passioni diverse. Altre testimonianze poi attestano che il morso di questo aracnide non produca alcun sintomo, ma tutto sia solo frutto dell’abitudine, dell’immaginazione e della suggestione; e la danza sarebbe né più né meno il ballo ordinario del paese, come ogni contrada ne ha uno speciale: in Germania il Ballo Svevo, in Provenza il Rigandon, il Fiascone in Toscana, le Contradanze in Inghilterra o il Fandango in Spagna. Le credenze popolari, affermando che il morso velenoso della tarantola provoca una profonda malinconia, che finisce talora con la morte e da cui si può guarire soltanto ballando violentemente, sottolineano pure che l’ammalato comincia a ballare solo quando il suonatore ha trovato quella melodia che agisce su di lui. Dunque la stessa melodia non va bene per tutti.

Inoltre quando l’ammalato, dopo essere guarito, avesse riascoltato questa melodia, avrebbe avvertito con la stessa forza e le stesse convulsioni il bisogno di riprendere a ballare. Molti credono che gli ammalati fingevano di essere in quelle condizioni, tuttavia a riprova di ciò, le fonti ricordano che il rimedio della musica era abbastanza costoso, almeno un ducato al giorno per i suonatori, oltre alle cure del medico, e calcolando anche che il malato ballava dai 4 ai 7 giorni. Inoltre per le ragazze era sconveniente farsi vedere in quello stato per la loro futura sistemazione, è per questo che le famiglie del ceto elevato cercavano di nascondere alla gente la conoscenza di un simile caso. In più si credeva di recare offesa a una ragazza colpita da Tarantismo, e che aveva ballato per guarirne, suonandole sotto la finestra (la serenata) i ritmi atti alla sua guarigione. Un documento ci fornisce anche la descrizione di come avveniva la danza della “Pizzica-Pizzica”. Una donna comincia a cariolare da sola, dopo qualche istante getta un fazzoletto a colui che il capriccio le indica, e lo invita a ballare con lei. Lo stesso capriccio le fa licenziare questo e invitarne un altro, poi un altro ancora, finché stanca non va a riposare. Così sta al suo ultimo compagno il diritto di invitare altre donne. Il ballo continua in tal modo. Nessuno può rifiutarsi di ballare né per la sua inesperienza, né per la sua grave età, né per qualsiasi altro motivo, perché un dovere di consuetudine lo obbliga a farlo. Per quanto riguarda il rituale, infine, possediamo una testimonianza: la paziente vestita di bianco, incoronata di pampini e nastri, con la spada in mano, era condotta in cerimonia su una terrazza dai suoi più cari amici; poi con la testa piegata tra le mai restava seduta per un po’ di tempo, mentre i musicisti cercavano di accontentare i suoi capricci e i suoi gusti con i loro accordi. Come colpita all’improvviso da una melodia, d’un tratto la malata si alzava e pian piano uniformava i suoi passi al ritmo della musica. I musicisti allora acceleravano il tempo e la malata ballava finché le forze glielo permettevano invitando un ballerino dopo l’altro, bagnandosi spesso il viso di un’acqua ghiacciata che prendeva da un vaso posto a portata di mano. Infine quando sfinita voleva rinviare la festa al giorno dopo, si versava addosso un intero secchio d’acqua. Immediatamente le sue compagne si affrettavano a spogliarla e a metterla nel suo letto. Durante questo tempo gli altri invitati aspettavano, divorando un sostanzioso pranzo sempre pronto per la circostanza.

Il culto di Demetra

Il nostro primo racconto ci porta direttamente nel cuore della tradizione pugliese, origini lontane e quasi dimenticate. Cosa ci fa il culto pagano della dea Demetra nella nostra tradizione? Bhe, a dir il vero davvero tanto! Ma chi era Demetra?
Demetra, figlia di Cronos e di Rhea Cibele, che i romani identificarono con la loro Cerere, era la dea dell’agricoltura, una delle divinità maggiori e più venerate. Demetra, era la dea dei campi e delle messi, in greco appunto significava “la madre Terra“, come tutti i contadini aveva un carattere semplice, di morale ineccepibile, di costumi austeri; veniva venerata come madre benigna e affettuosa. Proteggeva tutti i prodotti agricoli, ma in particolar modo quelli ritenuti più importanti, le biade e i cereali. Il suo culto era molto diffuso in Tessaglia, nella Beozia, nell’Attica, a Corinto e in tutto il Peloponneso fino ad arrivare in Sicilia, che per la sua fertilità divenne la dimora preferita dalla dea. Aveva una figlia avuta da Zeus, Persefone, per i romani Proserpina.

Ritratto di Persefone – Autore: Agostino Arrivabene

Famoso è il mito del ratto di Persefone. Demetra veniva raffigurata come una matrona severa e maestosa, ma anche bella ed affabile, con una corona di spighe in testa, una fiaccola in una mano e nell’altra un cesto di frutta. Le venivano sacrificati buoi, mucche e maiali, e le si offrivano frutta e miele. Le erano sacri i papaveri, gli alberi da frutta e le spighe. La storia prende proprio piede dal papavero, infatti in diverse aree del Salento, del tarantino e della Puglia, sono rimaste molto vive, sino quasi ai giorni nostri, le tradizioni dell’uso medicamentoso della “papagna” e del rito riparatorio alla “fascinazione” nel mondo contadino. Quanto sono legate queste usanze al mito demetriaco ? La dea greca Demetra, e il suo corrispettivo romano, Cerere, sono legate al simbolismo delle spighe e delle capsule di papavero da oppio, sia nella mitologia che in molte raffigurazioni. Persino una divinità precedente (e correlata anch’essa alla successiva Demetra) scoperta a Gazi, è strettamente legata al papavero: il famoso “idolo” femminile di Gazi è rappresentato con in testa delle capsule di papavero. Cerere e Demetra sono spesso “accompagnate”nelle varie raffigurazioni da spighe, oppio e serpenti.

La pianta del Papaver somniferum è conosciuta nella nostra tradizione popolare come “papagna” della quale ci è pervenuto un utilizzo di tipo medicamentoso nella cultura popolare contadina (calmante e analgesico per adulti e bambini a dosaggi variabili).

Papavero da oppio

Per calmare e far addormentare i bambini irrequieti sino a qualche decennio fa veniva preparato un infuso dal risultato “sicuro” e immediato, fatto con camomilla e uno o due bulbi di Papaver somniferum. Una variante molto utilizzata era il “pupieddu” (o “pupiddu” a seconda del dialetto di provenienza), un succhietto artigianale che prendeva forma di capezzolo attraverso la chiusura in una pezzuola, o un angolo di fazzoletto, dei seguenti ingredienti: mollica di pane, fiori di camomilla, foglie di alloro tritate, semi di papavero da oppio e zucchero (o miele).
L’infuso di “papagna” era utilizzato, ovviamente, anche per curare individui adulti (tosse, insonnia, irrequietezza, ecc.): in questo caso i dosaggi erano maggiori e rapportati alla sintomatologia o ai risultati desiderati….
Insomma vorrà dire forse che le nostre tradizioni siano fortemente accumonate da riti e usanze pagane di un passato remoto? La nostra terra è colma di testimonianze, scoprirle insieme sarà il nostro obiettivo…

Demetra raffigurata con spighe ed oppio

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