15 curiosities on New Orléans

New Orleans, a city rich in history, music, culture and entertainment, home of personalities from the past, among whom the most well-known is Abraham Lincoln, the 16th President of the United States. Ready to leave? Go!

new orleans

The name of the city derives from a king: Filippo II d’Orléans, who was a French general. The French Quarter is due to its European origins: a picturesque place with a thousand of legends, full of interesting places worth to visit.

New Orléans is also one of the most important cities of mixology, the art of creating cocktails: it has given birth to drinks such as Sazerac, with absinthe, sugar syrup, whiskey, brown sugar and Peychaud’s Bitter.

new orleans parade

With the name of the capital of Louisiana, one of the best jazz orchestras of the 1920s was baptized: the New Orleans Rhythm Kings. The first jazz rythm was born in the city at the end of the XIX century, still played along the streets without any score: its characteristic is being improvised, so that musicians can give their best and personal vision to music and indulge in the inspiration of the moment. The modern street bands in the city still perform outdoors nowadays, especially during celebrations of the crazy Carnival that colors the streets of New Orleans.

This is the city of music par excellence. Here also un unmissable musical event: the Jazz Fest, held every spring that attracts artists and fans from all over the world.

The inseparable link between the city and jazz music is confrmied by the fame of a song that many whistles around the world: Moon River by the great, unforgettable Louis Armstrong, born in his own New Orleans in 1901.

new orleans

The moon is certainly one of the symbols of the city: New Orléans is also known as Crescent City because, seen from above, it looks like a crescent.

New Orleans’ most popular dishes are part of the Creole tradition, and have amazing names like jambalaya e gumbo ya-ya – don’t leave without trying them!

The Louisiana Children’s Museum is a museum dedicated to children of all ages, and its rooms host exhibitions and events ranging from toys to architecture.

big easy new orleans

New Orléans is also called Big Easy. Because? Well, for its relaxed and pleasant lifestyle! Its inhabitants take it easy! In fact, its motto says Laissez les bons temps rouler – take time for fun!

At Carnival’s Mardi Gras, people usually eat the “King Cake“, a soft sponge cake decorated with gold, purple and green sugar. What’s so strange? A doll is hidden inside: whoever finds it will have to buy the cake the next Mardi Gras.

There are those who call New Orleans South Hollywood: in fact, the city hosted the set for films such as Il Curioso Caso di Benjamin Button and Interview with the Vampire. Also the cartoon film The Princess and the Frog was set right here.

New Orleans is certainly a city full of life, but you will be surprised to find that its cemeteries have many admirers, and that there are even organized tours to visit them!

Have a nice trip!



I lampioni di Ostuni

Guardare un lampione in ferro battutto è interessante, ma può stancare. Se però il lampione è appeso alla parete bianca di una casa stretta tra vicoli ed archi oltre i quali si scorgono una valle tempestata di olivi e un mare blu, lo spettacolo non annoia, ma invoglia a cercare altri scorci… Nel rione “Terra”, il borgo antico di Ostuni, gironzoli con il naso all’insù…
Non ci sono possenti manieri, viali alberati o cattedrali imponenti. Non ci sono marmi, nè colonne con artistici capitelli (a parte forse solo la bellissima chiesa barocca di San Vito Martire).
Nella Ostuni “vecchia” le dimensioni sono di dominio del piccolo, del lezioso e del semplice ed è l’umile calce che la fa da padrona, imbiancando in abbaglianti miraggi le case, le chiesette, gli archi, le piazzette in un intrico di viuzze che incanalano dolci brezze. E così che anche i lampioni assumono un’aura magica, inerpicati fra tutto quel biancore.
Brezze e odor di mare e di basilico si alternano fra le viuzze. Un basilico frequente nella “Terra” quasi quanto i lampioni. Un altro aroma s’aggiunge ai due: il vino miscelato da un barman d’eccezione: il vento. Ma il mare e il basilico non si possono bere. Solo fiutare.
Il vino no, quello si può. Si può sprigionare da un’osteria di un solo vano, illuminata anch’essa da un lampione solitario. Entri nella piccola osteria e ti siedi ad un tavolo ripensando ai giochi di colore che, fuori, il sole comincia a creare con la finestrella dalle persiane verdi.
All’ombra del lampione, all’interno, è come se si tornasse indietro nel tempo: messapi, longobardi, bizantini, normanni si sono avvicendati, demolendo, ricostruendo e saccheggiando queste antiche strade. Ma non ne scorgi i segni. Oggi, proprio questo lampione fa pensare che nessuno abbia intenzione di rovinare il patrimonio artistico e storico di Ostuni, bensì di valorizzarlo.
Ma il profumo del mare continua a stuzzicare le nari. E andiamo a vederlo…. Otto chilometri di spiaggia, acqua limpida, piccole case (anche quì…!), agavi e fichi d’india.
A sera, sulla via del ritorno, si ammira Ostuni sulla collina a 300 metri, illuminata dai lampioni come un presepe.
Mare blu diviene nero, quasi da non scorgerlo più, ma lo indovini per l’ansare quieto di cento lampade che dondolano all’orizzonte.
(liberamente tratto da “I lampioni di Ostuni” di Vittorio Stagnani)

Miti e leggende del Salento

Il passato del popolo salentino non si racconta solo attraverso i monumenti e i preziosi reperti storici ritrovati su tutto il territorio: c’è un’altra anima del Salento da scoprire, quell’ energia più irrazionale e fanciulla che cercava di dare una spiegazione a tutto quello che esiste e prende forma vitale.

“scazzamurrieddhi” o “municeddhu” o ancora “lauri” leccesi

Piccoli ritagli quotidiani, in cui si tramandavano leggende e superstizioni, magari durante il duro lavoro nei campi oppure nel chiacchiericcio di gruppo delle “comari” durante le faccende domestiche, oppure ancora veniva fuori la sera, nei quotidiani momenti di comunione seduti in gruppo intorno al fuoco.

Una magia che ancora si avverte nel clima del Salento e nei suoi rituali tenuti in vita dalla memoria popolare. Già il mito della taranta, simbolo per eccellenza e “marchio” ufficiale degli itinerari di viaggio nel Salento, rappresenta questa tendenza al magnifico e all’immaginario, per raccontare in modo poetico e soavemente infantile sentimenti, emozioni e storie di vissuto quotidiano con toni leggendari ed epici. Come le leggendarie figure degli “scazzamurrieddhi” o “municeddhu” o ancora “lauri” leccesi, che arrecavano dispetti di ogni tipo, come nascondere o cambiare di posto oggetti e sedendosi sul petto dei dormienti suscitando incubi notturni.

Rubargli il cappello a punta, era l’unico modo di togliere potere al la loro indole irriverente.

 

Tra folletti, gnomi, spiritelli e “macare”, sono numerosissime le leggende locali che riguardano le masserie, le pinete, le chiese, i monumenti, oggi frequentatissimi nei periodi di vacanza nel Salento, come anche nelle suggestive zone costiere ricche di grotte e insenature naturali. Torre dell’Orso, una delle tante località balneari del Salento preferite da turisti, conosce la storia delle “due sorelle”, due scogli molto somiglianti, che si ritiene siano due sorelle mutate in quella forma dagli dei per pietà, mentre stavano annegando in mare.

Torre dell’orso – le due sorelle

Assai suggestiva è la leggenda legata a Santa Maria di Leuca e al suo mare, oggetto di altri racconti affascinanti del passato: questa meta ambita conserva la leggenda degli “scogli dannati”, un insieme di isolotti a largo di Punta Ristola, considerati “maledetti” dai naviganti in viaggio vicino alla costa perché poco visibili. Secondo la mitologia greca in questo punto Medea, per vendicarsi del marito Giasone, uccise i figli e sparse i loro corpi nelle acque, metaforicamente rappresentate dagli scogli.

 

In molte zone del litorale, oggi aperte al mondo e piene di vita durante le vacanze nel Salento, ci sono leggende di questo tipo. Sono incalcolabili per numero e per varietà, anche i miti legati al culto religioso, alla commemorazione delle stagioni, come anche le superstizioni e le leggende più “domestiche”, come quelle che venivano dette ai bambini per evitare che questi combinassero guai o di mettersi in situazione di pericolo, come il terribile “nanni-orcu”, creatura malvagia che mangiava i piccoli disobbedienti.

Madea e gli argonauti

La neve conservata – come nasce il gelato

Pare che il gelato sia stato inventato nel Medioevo dal solito italiano furbo che un giorno versò dello sciroppo su una palla di neve e fece la grande scoperta oggi trasformata in vera e propria industria. E’ però certo che il creatore del vero gelato fu il fiorentino Bernardo Buontalenti e che nel XVI secolo in Toscana si produceva su scala commerciale. La neve, invece, è stata inventata da sempre, ma col poco tempismo di cadere d’inverno, quando i gelati piacciono meno. E siccome nel Medioevo l’uomo era furbo sì, ma non tanto da pensare al frigorifero, i gelati si consumarono per lungo tempo soltanto nella stagione fredda.
Agli uomini non è dato aver tutto, ed è proprio per questa ragione che aguzzano l’ingegno, specialmente quando ci sono di mezzo la gola e il portafoglio.
Debbono essere nate così ad Altamura, in provincia di Bari le neviere, grandi cisterne interrrate dove d’inverno si accumulavano, con l’intervento d’una moltitudine di lavoranti specializzati, scorte di neve che si conservava fino all’estate ed era esportata nei sitibondi e solatii paesi della costa, pronta per farne gelati, granite e sorbetti.
Le prime notizie sulle neviere appaiono in documenti del 1857, raccolti e conservati dall’archivio-biblioteca del museo civico di Altamura. “Una vera e propria industria del freddo era in atto a quei tempi, scrive lo studioso Francesco Lemma, in Altamura e fuori, che interessava gran parte della nostra popolazione e assorbiva capitali ed energie che, rapportate ai tempi e all’apparente precarietà della merce che ne formava oggetto, avevano dimensioni e caratteristiche da stupire”.
Oggi nelle campagne attorno ad Altamura ci sono amcora molte neviere; si riconoscono dal caratteristico tetto spiovente, in pietra, a pelo di campagna. Nonostate rapidamente soppiantate dai grandi impianti frigoriferi, ma è bello ugualmente vederle e immaginare ciò che avveniva attorno ad esse all’indomani di un’abbondante caduta di neve.
Operai armati di pale, “sarte”, di “vaiardi”, di “mazzache”, di “trocciole”, scale, catene, maglie e zapponi si riversavano attorno alla neviera per stipare la neve, facendo bene attenzione che rimanesse pura da sassi ed erbe il più possibile, perchè non si avessero qualità di scarto. La neve doveva essere “bianca, ricettibile, mangiabile, da bicchiere”. Le qualità più comunemente richieste erano la “ricettibile” e da “bicchiere”, la neve buona insomma per i gelati fatti, oltre che con gli sciroppi, anche col vin cotto. Ma quest’ultima era l’invenzione per i più poveri.
La neve, stipata con paticolari cure, resisteva bene per tutta la primavera e l’estate, quando veniva ilmomento di esportarla sulla costa dove altri commercianti vevano acquistato a “scatola chiusa” grandi quantità della bianca merce. Enormi problemi erano legati al trasporto… Quante lamentele giungevano agli “industriali” di Altamura per gli “sfridi” (sgocciolio che riduceva il volume) e la non eccellente qualità! Scrivva un comerciante al suo fornitore: “un altro poco di neve, o volete onon volete dovete darmela”.
La neve si tagliava in blocchi e la si caricava sui carri. Prima però era necessario l’imballaggio, altropunto dolente, perchè dovevano viaggiare lentamente sotto il solleone per mote ore. Soltanto ua copertura fsatta a regola d’arte consentiva che essa arrivasse a destinazione con lo sfrido neilimti previsti e calcolati al centesimo dalleparti contraenti.
Il miglior imballaggio er a la paglia, che tanto più rispondeva al suo compito coinbente quanto più era sottile e abbondante. Non era sempre facile trovare paglia; così quando mancava a causa soprattuto degli incendi del solleone, si ricorreva a paglia grossa e magari “abbrucciacchiata”, che provocava però lamentele a non finire e anche cause giudiziarie lunghissime.
Il prodotto era controllato dai sindaci prima di essere venduto e spesso essi ne proibivano il commercio perchè la neve non era troppo pulita o perchè sapeva di fumo. Un commerciante di Monopoli scriveva adirato: “Mi raccomando, nel far condizionare la neve, di non farmi mettere la paglia bruciata, perchè l’altrieri ebbe una multa”.
Gioia per grandi e piccini attorno ai carri da Altamura che arrivavano a Bari, Bitritto, Bitonto, Conversano, Gallipoli, Gioia del Colle, Gravina, Lecce, Matera, Minervino, Monopoli, Santeramo, Soverato, Trani e fino a Taranto perchè si poteva fare il gelato e rinfrescare l’acqua e “fare feste più divertenti”, per la presenza del singolare sorbetto che oggi senza nessuna fatica troviamo al bar dell’angolo.
Eppure dopo la grande invenzione del frigorifero e con la scia spesso miseramente modaiola dell’ambientalismo, l’ultima frontiera è il frigorifero senza corrente, sotterraneo che sfrutta le stesse caratteristiche della neviera: sfruttando l’isolamento termico del sottosuolo conserva naturalmente a bassa temperatura i cibi… Quando si dice che la tradizione insegna…

Fuori strada…

Percorrere occulti sentieri come pastori sanno, tra rocce e colline e ciuffi d’erba, la strada dell’ovile; perdersi tra pietre grige, treppicare fra boschetti e piante cariche di essenze selvagge che effondono nell’aria aromi da stordire. E poi guardare lontano…
E’ la Murgia.
Ci vogliono gli scarponi per girovagare sulla Murgia e assaporarla. Per il castello gli scarponi non servono: intorno ci sono strade asfaltate, ma se soltanto vi lasciate condurre dal richiamo d’andar per quel deserto di pietra allora attrezzatevi ed abbandonate il comodo ristorante, dimenticate il juke box. C’è la musica del vento.
Le pietre della Murgia m’attirano come camminare per certi campi innevati dove nessuno ha messo ancora piede ma, contemporaneamente, quasi mi dispiace calpestare quella panna montata. Mi sembra di dissacrare il suo modo arcano di tortuose gravine, orride voragini, tane di lupi, “puli”, pastori imbaccucati che ora sentono la radio per passare il tempo ed anno, invece, perso l’abitudine di intagliare i rami.
L’ultima volta sulla Murgia ci sono stato in autunno e credo prorpio che sia la stagione sua. Ma mi piace anche d’inverno e d’estate quando sembra un quadro di Van Gogh inondata di giallo. Com’è in primavera? Un tripudio di vita, uno sbocciare di pallidi asfodeli, di peonie coralline, di orchidee, un verdeggiare di timo, lentisco, rosmarino, di macchie di lingustri, di frassini.
Quel giorno d’autunno l’aria era pregna d’umidità: aveva piovuto la notte e all’alba. Poi era venuto il sole ed il cielo era come una grande bandiera azzurra. Pozzanghere s’erano formate nei tratturi e tra le pietre; dentro ci si specchiavano le erbe e il volo rapido e nervoso di falchetti. I campi erano fangosi, le pietre, macchiate di muschi e di licheni, lucevano al sole. In alcuni vigneti a ridosso di case coloniche abbandonate e regno di lucertole e “scorzoni”, pochi grappoli erano rimasti fra foglie stanche. Contesi chicci a passeri e cardellini voraci: avevano un sapore di mosto e di uvetta. C’erano dei perazzi dai frutti asprigni e fichi selvatici piccoli, piccoli ma dolci e generosi.

In autunno crescono i cardoncelli sulla Murgia. Mi piace credere che solo in Puglia crescano questi deliziosi funghi. Anzi, credo proprio che sia così. Sono carnosi, corposi, hanno la cappella marrone e un bel gambo avorio. Si riconoscono quasi subito quando non sono mimetizzati tanto bene da sembrar sassi; sono tanto saporiti perchè assorbono tutte le essenze selvagge della Murgia. Ne raccolsi tanti quel giorno. Me ne riempii le tasche e quando nemmeno queste bastarono usai la canottiera. C’era tanto vento ma, pur a dorso nudo, non tremavo: c’era un tiepido sole d’autunno.

Ma non fu una giornata del tutto lieta, quella. Tre colpi di fucile stroncarono la vita di una graziosa volpe rossa. Ferita al primo colpo cercò disperatamente salvezza fra i sassi; il secondo la ferì ancora e il terzo la fulminò. La volpe guardava orizzonti, schifava il cacciatore e già andava per cacce notturne sulle nevi che resto avrebbero ammantato Murex.
Vittorio Stagnani

Le origini del tarantismo

Che le origini del Tarantismo siano da attribuire a Taranto e dintorni lo attestano molti scritti antichi, in particolare quelli dei viaggiatori stranieri che soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento, nell’ambito dei loro “tours” nel Meridione d’Italia giungevano nella nostra città, e che avevano la preziosa abitudine di lasciare appunti, annotazioni, lettere a testimonianza delle loro osservazioni e delle loro ricerche. La più antica testimonianza risalente attorno alla seconda metà del Cinquecento, è quella di Nicolas Audebert, francese, poeta e consigliere al parlamento di Bretagna, ricco borghese d’Orleans. “La Tarantola è più comune in Puglia che in nessun altra località e principalmente dalle parti della città di Taranto, donde ha preso il nome, perché durante tutta l’estate nei campi ce ne sono un’infinità.” La trattazione di Audebert riguarda anche gli effetti della puntura dell’insetto che sono tra loro molto diversi per due cause: – la diversa qualità del veleno dell’insetto; – la diversa temperatura e il diverso umore delle persone punte.
La descrizione ci parla del fatto che la puntura può provocare il canto o le grida incessanti;

il pianto, il riso, il sonno o l’insonnia. Alcuni hanno mal di testa e vomitano, altri fuggono, altri ancora tremano. Alcuni sono appesantiti e abbattuti, altri vogliono soltanto saltare e danzare. C’è poi chi è in preda a passioni diverse come frenesia, rabbia, furia. Chi grida di dolore, chi invece rimane placido, quasi insensibile.

Sta di fatto, afferma Audebert, che le persone malinconiche sono le più tormentate delle altre e cambiano d’ora in ora gli effetti delle loro passioni diverse. Altre testimonianze poi attestano che il morso di questo aracnide non produca alcun sintomo, ma tutto sia solo frutto dell’abitudine, dell’immaginazione e della suggestione; e la danza sarebbe né più né meno il ballo ordinario del paese, come ogni contrada ne ha uno speciale: in Germania il Ballo Svevo, in Provenza il Rigandon, il Fiascone in Toscana, le Contradanze in Inghilterra o il Fandango in Spagna. Le credenze popolari, affermando che il morso velenoso della tarantola provoca una profonda malinconia, che finisce talora con la morte e da cui si può guarire soltanto ballando violentemente, sottolineano pure che l’ammalato comincia a ballare solo quando il suonatore ha trovato quella melodia che agisce su di lui. Dunque la stessa melodia non va bene per tutti.

Inoltre quando l’ammalato, dopo essere guarito, avesse riascoltato questa melodia, avrebbe avvertito con la stessa forza e le stesse convulsioni il bisogno di riprendere a ballare. Molti credono che gli ammalati fingevano di essere in quelle condizioni, tuttavia a riprova di ciò, le fonti ricordano che il rimedio della musica era abbastanza costoso, almeno un ducato al giorno per i suonatori, oltre alle cure del medico, e calcolando anche che il malato ballava dai 4 ai 7 giorni. Inoltre per le ragazze era sconveniente farsi vedere in quello stato per la loro futura sistemazione, è per questo che le famiglie del ceto elevato cercavano di nascondere alla gente la conoscenza di un simile caso. In più si credeva di recare offesa a una ragazza colpita da Tarantismo, e che aveva ballato per guarirne, suonandole sotto la finestra (la serenata) i ritmi atti alla sua guarigione. Un documento ci fornisce anche la descrizione di come avveniva la danza della “Pizzica-Pizzica”. Una donna comincia a cariolare da sola, dopo qualche istante getta un fazzoletto a colui che il capriccio le indica, e lo invita a ballare con lei. Lo stesso capriccio le fa licenziare questo e invitarne un altro, poi un altro ancora, finché stanca non va a riposare. Così sta al suo ultimo compagno il diritto di invitare altre donne. Il ballo continua in tal modo. Nessuno può rifiutarsi di ballare né per la sua inesperienza, né per la sua grave età, né per qualsiasi altro motivo, perché un dovere di consuetudine lo obbliga a farlo. Per quanto riguarda il rituale, infine, possediamo una testimonianza: la paziente vestita di bianco, incoronata di pampini e nastri, con la spada in mano, era condotta in cerimonia su una terrazza dai suoi più cari amici; poi con la testa piegata tra le mai restava seduta per un po’ di tempo, mentre i musicisti cercavano di accontentare i suoi capricci e i suoi gusti con i loro accordi. Come colpita all’improvviso da una melodia, d’un tratto la malata si alzava e pian piano uniformava i suoi passi al ritmo della musica. I musicisti allora acceleravano il tempo e la malata ballava finché le forze glielo permettevano invitando un ballerino dopo l’altro, bagnandosi spesso il viso di un’acqua ghiacciata che prendeva da un vaso posto a portata di mano. Infine quando sfinita voleva rinviare la festa al giorno dopo, si versava addosso un intero secchio d’acqua. Immediatamente le sue compagne si affrettavano a spogliarla e a metterla nel suo letto. Durante questo tempo gli altri invitati aspettavano, divorando un sostanzioso pranzo sempre pronto per la circostanza.

Il culto di Demetra

Il nostro primo racconto ci porta direttamente nel cuore della tradizione pugliese, origini lontane e quasi dimenticate. Cosa ci fa il culto pagano della dea Demetra nella nostra tradizione? Bhe, a dir il vero davvero tanto! Ma chi era Demetra?
Demetra, figlia di Cronos e di Rhea Cibele, che i romani identificarono con la loro Cerere, era la dea dell’agricoltura, una delle divinità maggiori e più venerate. Demetra, era la dea dei campi e delle messi, in greco appunto significava “la madre Terra“, come tutti i contadini aveva un carattere semplice, di morale ineccepibile, di costumi austeri; veniva venerata come madre benigna e affettuosa. Proteggeva tutti i prodotti agricoli, ma in particolar modo quelli ritenuti più importanti, le biade e i cereali. Il suo culto era molto diffuso in Tessaglia, nella Beozia, nell’Attica, a Corinto e in tutto il Peloponneso fino ad arrivare in Sicilia, che per la sua fertilità divenne la dimora preferita dalla dea. Aveva una figlia avuta da Zeus, Persefone, per i romani Proserpina.

Ritratto di Persefone – Autore: Agostino Arrivabene

Famoso è il mito del ratto di Persefone. Demetra veniva raffigurata come una matrona severa e maestosa, ma anche bella ed affabile, con una corona di spighe in testa, una fiaccola in una mano e nell’altra un cesto di frutta. Le venivano sacrificati buoi, mucche e maiali, e le si offrivano frutta e miele. Le erano sacri i papaveri, gli alberi da frutta e le spighe. La storia prende proprio piede dal papavero, infatti in diverse aree del Salento, del tarantino e della Puglia, sono rimaste molto vive, sino quasi ai giorni nostri, le tradizioni dell’uso medicamentoso della “papagna” e del rito riparatorio alla “fascinazione” nel mondo contadino. Quanto sono legate queste usanze al mito demetriaco ? La dea greca Demetra, e il suo corrispettivo romano, Cerere, sono legate al simbolismo delle spighe e delle capsule di papavero da oppio, sia nella mitologia che in molte raffigurazioni. Persino una divinità precedente (e correlata anch’essa alla successiva Demetra) scoperta a Gazi, è strettamente legata al papavero: il famoso “idolo” femminile di Gazi è rappresentato con in testa delle capsule di papavero. Cerere e Demetra sono spesso “accompagnate”nelle varie raffigurazioni da spighe, oppio e serpenti.

La pianta del Papaver somniferum è conosciuta nella nostra tradizione popolare come “papagna” della quale ci è pervenuto un utilizzo di tipo medicamentoso nella cultura popolare contadina (calmante e analgesico per adulti e bambini a dosaggi variabili).

Papavero da oppio

Per calmare e far addormentare i bambini irrequieti sino a qualche decennio fa veniva preparato un infuso dal risultato “sicuro” e immediato, fatto con camomilla e uno o due bulbi di Papaver somniferum. Una variante molto utilizzata era il “pupieddu” (o “pupiddu” a seconda del dialetto di provenienza), un succhietto artigianale che prendeva forma di capezzolo attraverso la chiusura in una pezzuola, o un angolo di fazzoletto, dei seguenti ingredienti: mollica di pane, fiori di camomilla, foglie di alloro tritate, semi di papavero da oppio e zucchero (o miele).
L’infuso di “papagna” era utilizzato, ovviamente, anche per curare individui adulti (tosse, insonnia, irrequietezza, ecc.): in questo caso i dosaggi erano maggiori e rapportati alla sintomatologia o ai risultati desiderati….
Insomma vorrà dire forse che le nostre tradizioni siano fortemente accumonate da riti e usanze pagane di un passato remoto? La nostra terra è colma di testimonianze, scoprirle insieme sarà il nostro obiettivo…

Demetra raffigurata con spighe ed oppio

La frisa salentina

I turisti la guardano e non sanno quale posata utilizzare per mangiarla e provano a sgranocchiarla come un biscotto; i settentrionali si interrogano da quale lato iniziare a morderla; i meridionali osservano divertiti mentre hanno addentato già l’ultimo pezzo.

La “Frisa”

La leggenda vuole che le prime frise fossero state importate direttamente da Enea quando sbarcò in Puglia. Certo è che sono un alimento tradizionale consumato da secoli nella regione.
Nacque come piatto povero, fatto solo di farina d’orzo (allora meno pregiata di quella di frumento) e consumato dai contadini e dai marinai. Si dice fosse uno dei piatti che i contadini preparavano per i Cavalieri templari che partivano per le crociate in terra Santa.

Le frise dovevano mantenersi a lungo e resistere a lunghi viaggi, per questo subivano una doppia cottura e poi venivano impilate facendo passare un filo nel buco come a formare una collana.
In passato le friselle venivano ammollate con acqua di mare (già salata) e mangiate con un pomodoro spremuto sopra. Oggi oltre al pomodoro vengono aggiunti anche altri ingredienti tipici del Sud Italia: olive leccine, carciofini, peperoni, rucola, filetti di tonno o di acciughe e così via.

Le friseddhe potevano essere preparate e conservate per mesi nelle capàse, i tradizionali orci panciuti in terra cotta dal collo largo e le piccole e robuste anse.

La tipica frisa salentina

L’impasto, costituito da farina, acqua e sale è del tutto simile a quello del pane ma con un 10 % in meno di acqua. Una volta cotte, vengono estratte dal forno e spaccate in due secondo l’asse mediano, orizzontale, che deve garantire un’accentuata rugosità nella parte tagliata. Secondo la tradizione, veniva utilizzato uno spago, cingendo le friselle e tirandone i capi, oppure utilizzando una sorta d’archetto rudimentale, attrezzato di un filo di ferro rugoso.

Il consumo delle friselle è soprattutto estivo, quando vanno a costituire un piatto fresco e facilmente digeribile. L’uso canonico, consiste nel bagnarle, incoronarle con i pomodorini freschi locali cospargerle di origano (Origanum eracleonticum), di sale e infine nell’allagarle o quasi d’olio di frantoio.

Sembrerà strano, ma la riuscita non è sempre garantita. Facile infatti dire bagnare e condire, ma come si bagna una friseddha doc? Alcuni la profanano direttamente sotto il rubinetto, altri la pongono in una ciotola e la sommergono di acqua, altri, la bagnano a rate con piccole, timide mestolate d’acqua. Il risultato è sempre diverso!

pomodori, rucola, mozzarelle, frisa, olive

Vi suggeriamo ora un preciso protocollo per eseguire questa operazione a regola d’arte: per prima cosa bisogna porre in tavola una ciotola con acqua preferibilmente fresca, poi, dopo essersi muniti di fondine, bisogna afferrare le friseddhre con tre dita, con la parte rugosa sopra e calarle e cacciarle velocemente per tre volte dall’acqua della ciotole, quindi porle nella fondina sul cui fondo, badate bene si è proceduto a versare un mestolino della stessa acqua e solo allora si può procedere al condimento.

Provare per credere!

I fischietti di terracotta

I fischietti di terracotta sono uno dei prodotti artigianali più caratteristici della tradizione pugliese e la sua tradizione si perde nella notte dei tempi. Legata alla lavorazione dell’argilla, l’utilizzo risale addirittura al Neolitico con gli utensili in ceramica realizzati dalle popolazioni che si erano insediate lungo le lame (antichi corsi d’acqua oggi secchi).

Nel corso dei secoli, alla produzione di vasi, recipienti, tegole e suppellettili, i vasai pugliesi affiancarono anche la realizzazione di piccoli oggetti sonori utilizzati come richiamo e, soprattutto, come gioco per i bambini, imitando il canto degli uccelli. I fischietti di terracotta sono inoltre dei veri e propri strumenti musicali che, nell’ambito dell’evoluzione del linguaggio universale, hanno rappresentato un importante strumento di comunicazione in grado di mettere l’uomo in contatto con la natura.

Sin dalla preistoria l’atto del fischiare ha avuto un notevole valore comunicativo: “Il fischio è [..] imitazione del suono degli uccelli o di altri animali sibilanti, una forma di comunicazione radicalmente diversa dal linguaggio umano e in quanto tale barbarica, nel senso che al termine davano i Greci. Il più antico significato del fischio è quello di contestazione. Al punto che nella Bibbia è già codificato come punizione mandata da Dio. Secondo il Libro dei Re, il Signore minaccia di fare di Israele lo zimbello di tutte le genti e di far piovere fischi sul popolo eletto se si fosse messo ad adorare altro Dio all’infuori di lui” . Il fischietto, per contro, assume una forte qualità apotropaica, cioè propiziatoria e anti-malocchio ma nel tempo ha acquistato proprietà apotropaiche di buon augurio e di scaccia pensieri.

Il gallo è un animale sacro a Esculapio, e quest’ultimo, grazie al Cristianesimo, è stato scalzato dall’Arcangelo Michele. Ma il gallo, nelle culture pagane e in quelle popolari, è anche simbolo di sessualità: l’analogia tra la potenza virile e il fischio bitonale tipico di un uccello, è inequivocabile, forse per il senso che il sibilo assume in natura, quando usato dai maschi di alcune specie animali come richiamo alle femmine per l’accoppiamento. Da qui la “qualità” propiziatrice del “galletto”, simbolo della fertilità, non a caso sino alla metà del secolo scorso era offerto in dono agli sposi il giorno delle nozze. L’evocazione della fertilità è richiamata anche dalla sua varietà di colori, che assurge a un significato legato al culto ancestrale della natura e della sua vitalità che si rinnova nella ciclica esplosione della primavera.
La realizzazione del fischietto è legato direttamente ai simboli della terra: tre sfere d’argilla opportunamente modellate e connesse tra loro danno corpo al “magico” oggetto, poi si passa all’asciugatura all’aria, alla coloritura e al passaggio nel fuoco, elementi della natura questi che si legano indissolubilmente nell’oggetto che, a questo punto, si crede, diviene “soprannaturale”.
I “tintinnabula” di origine romana (un sonaglio azionato dal vento) assumevano le forme più svariate, spesso ispirate al mondo animale e legate a simbologie di natura propiziatoria. Si sono poi diffuse figure rappresentanti il mondo concreto, domestico, affollato dei personaggi più comuni della realtà del paese: carabinieri, suore, preti, donne, contadini, beoni, perditempo. Un’esorcizzazione della quotidianietà, espressione di satira burlesca e spesso di irriverenza, la grottesca rappresentazione di una realtà che si vuole beffare.

Il più antico fischietto rinvenuto nella zona risale al XVI secolo e raffigura un galletto, simbolo di virilità e fertilità. Fino al XIX secolo il fischietto pugliese è stato quasi sempre zoomorfo, a forma di gallo, uccello, gatto, rospo, per poi diventare antropomorfo, forse per il sempre più vivo interesse culturale e popolare che vi ruotava attorno, divenendo poi strumento tanto amato dalla satira.
Quella degli oggetti sonori in terracotta è, comunque, una tradizione che riguarda un’area molto vasta della regione. I fischietti in terracotta sono dei veri piccoli capolavori dell’artigianato pugliese frutto di una complessa lavorazione manuale. L’argilla rossa, abbondante in Puglia, viene, infatti, lavorata con cura e poi sistemata in stampi di gesso accuratamente scolpiti per creare la forma desiderata. Soltanto quando l’argilla sarà ben pressata e avrà raggiunto il giusto livello di umidità si potranno aprire gli stampi e poi, con l’ausilio di un bastoncino di legno, verificare che la fessura del fischietto sia adatta ad emettere il suono. I fischietti dovranno, quindi, essere dapprima sottoposti ad un lungo processo di cottura, che può protrarsi fino a quattro, giorni, e poi, dipinti ad uno ad uno con i colori desiderati. L’argilla rossa con cui sono impastati, poi, li lega alle radici di ogni civiltà, sia pagana (la madre-terra da cui tutto trae origine) che cristiana (la materia con cui fu creato l’uomo nel racconto della Bibbia).

Ad Ostuni questa produzione è diventata una vera e propria istituzione locale. A palazzo San Francesco (sede del Comune) si possono ammirare i fischietti premiati nel corso delle varie edizioni della Rassegna nazionale del fischietto in una mostra che rimarrà fino a fine Settembre.

Passeggiando poi tra i vicoli del centro storico è possibile entrare nei numerosi negozietti e acquistare fischietti dalle forme più svariate.

Tradizionalmente il fischietto veniva regalato soprattutto in occasione della festa patronale di Sant’Oronzo (26 Agosto); oggi non è più solo un giocattolo, ed è venduto sia come souvenir per i turisti, che come oggetto portafortuna, come complemento d’arredo e come oggetto da collezione.

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